di Donato D’Urso
Mazziniano, garibaldino, avvocato, deputato, giornalista e banchiere, Michele Romagnoli nacque in Alessandria il 26 agosto 1826 da Paolo e Maddalena Pedemonte. Apparteneva a famiglia che fu in prima fila nelle lotte risorgimentali: gli zii parteciparono ai fatti del 1821 e del 1833, subendo carcere ed esilio. Michele studiò in un collegio di Savona e poi a Genova, laureandosi in giurisprudenza nel 1847.
Appena diciassettenne aderì alla Giovine Italia e fu caro a Giuseppe Mazzini che gli affidò incarichi fiduciari anche all’estero. Dopo la fallita insurrezione milanese del 6 febbraio 1853, Romagnoli fece parte del collegio di difesa di Mazzini in uno dei processi aperti a carico dell’esule ligure.
Nel 1855 Romagnoli fu deportato in America dalle autorità piemontesi, a causa delle sue convinzioni repubblicane e perciò ‘sovversive’. L’esilio forzato di persone politicamente sospette, a cui non si potevano addebitare condotte meritevoli del carcere, fu prassi degli stati italiani preunitari e s’accompagnò al più conosciuto fenomeno dell’esilio volontario. I governi del regno delle Due Sicilie, dello stato pontificio, del regno di Sardegna si comportarono allo stesso modo, deportando gli indesiderabili verso l’America del Nord e del Sud e persino l’Australia. Naturalmente, ciò avveniva col consenso dei paesi di destinazione, che non s’opponevano all’arrivo di persone in genere alfabetizzate e con un’arte o professione. Talvolta le partenze forzate riguardavano gruppi, altre volte singoli individui. In ogni caso, poiché non si trattava di galeotti destinati a colonie penali, gli interessati, una volta sbarcati, non erano soggetti a particolari restrizioni e, se avevano risorse economiche, potevano muoversi liberamente, anche per tentare di rientrare in patria.
Le deportazioni rispondevano a esigenze di sicurezza interna ma anche di salvaguardia delle relazioni internazionali, ad esempio di ‘buon vicinato’ tra il piccolo Piemonte e la grande Austria. Così fu dopo la citata rivolta milanese del 1853, che provocò una crisi grave nei rapporti tra i due governi e indusse Cavour ad adottare all’interno misure di rigore.
Quando Romagnoli decise di rientrare in Europa, visse per qualche tempo a Parigi, dove s’accompagnò a Francesco Crispi come lui esule repubblicano. Autorizzato a tornare nel regno di Sardegna, s’impegnò prima del 1860 in attività politica alla luce del sole, come membro delle commissioni direttive elette in vari congressi delle società operaie (il primo in assoluto si tenne ad Asti nel 1853).
Nel 1859 Romagnoli corse ad arruolarsi volontario con Garibaldi nei Cacciatori delle Alpi e combatté a San Fermo e Varese.
L’anno dopo, col grado di capitano, s’imbarcò per la Sicilia con la spedizione Medici. I tre vapori francesi destinati a trasportare i rinforzi per Garibaldi furono formalmente acquistati da William Theodore De Rohan, veterano della marina americana fedele alla causa garibaldina. Le navi furono ribattezzate e divennero Washington, Oregon e Franklin. Le prime due salparono da Genova-Cornigliano prima dell’alba del 10 giugno 1860, al comando di Giacomo Medici e Vincenzo Caldesi, con a bordo circa 2500 uomini. Sempre il 10 giugno ma partendo da un porto toscano salpò la terza nave, con 800 volontari guidati da Vincenzo Malenchini.
La spedizione Medici, che recò in Sicilia anche i rinomati fucili Enfield, doveva essere ancora più consistente, poiché comprendeva anche il rimorchiatore Utile (reduce da un primo fortunato trasporto, quello della cosiddetta ‘retroguardia dei Mille’ con Carmelo Agnetta) e il clipper Charles and Jane, ma al largo della Corsica le due imbarcazioni furono intercettate da una nave da guerra napoletana e costrette a dirigersi a Gaeta. Lì rimasero sino al 30 giugno, venendo infine rilasciate per intervento delle autorità diplomatiche statunitensi e sarde.
Washington e Oregon raggiunsero dopo poco più d’una settimana Castellammare del Golfo a una cinquantina di chilometri a ovest di Palermo, mentre i volontari di Malenchini sbarcarono direttamente nel capoluogo siciliano.
Romagnoli aveva un distinto curriculum legale e perciò fu destinato alla magistratura militare. In seguito divenne segretario di Antonio Mordini, prodittatore in Sicilia dal settembre al dicembre 1860.
Mordini sostituì nel delicato incarico Agostino Depretis e gestì la delicata fase del plebiscito. Toscano di Barga, s’era distinto come combattente nella prima guerra d’indipendenza e, al momento della nomina a prodittatore, era tenente colonnello e revisore generale dei conti dell’esercito garibaldino. Apparteneva al partito d’azione, ma era anche deputato al parlamento di Torino, aveva votato per l’annessione della Toscana al regno di Sardegna e nel 1860 non sosteneva più posizioni repubblicane. La nomina voluta da Garibaldi non piacque a Cavour per i precedenti politici di Mordini che, però, era ormai ‘allineato’ tanto che negli anni successivi fu prefetto, ministro, senatore del Regno.
Il discusso plebiscito, di cui c’è viva descrizione ne Il gattopardo, si svolse 21 ottobre 1860 e l’esito, sic stantibus rebus, era scontato: 432.053 voti a favore della scelta unitaria, 667 contro.
Conclusa l’esperienza nel Meridione, Romagnoli trovò impiego come segretario della Camera di commercio ed arti di Alessandria appena istituita. Lasciò l’incarico dopo meno di un biennio e tentò l’avventura politica nazionale, con la candidatura a deputato nel collegio di Tortona. Nel 1865 fu sconfitto in due tornate successive dai fratelli Rattazzi, Urbano e Giacomo. Invece, riuscì eletto nel febbraio 1866 battendo al ballottaggio proprio Giacomo Rattazzi. Alla Camera scelse di sedere a sinistra, atto significativo tenuto conto che all’epoca non c’era organizzazione partitica e vincolo di appartenenza, tanto che i parlamentari si usava distinguerli semplicemente tra ministeriali e anti-ministeriali.
La convalida dell’elezione di Romagnoli fu contrastata (egli aveva vinto con soli 23 voti di scarto). La Camera dei deputati valutò una serie di esposti che facevano riferimento a presunte irregolarità nelle operazioni di voto (che allora si svolgevano in forme molto semplici e assai meno ‘garantiste’ rispetto a oggi), ma denunziavano anche fatti illeciti, come il versamento o la promessa di somme di denaro per indurre singoli elettori a votare Romagnoli (quello che chiamiamo ‘voto di scambio’ non è una prerogativa dei nostro tempo). La Camera alla fine convalidò l’elezione, ma pochi mesi dopo l’assemblea fu sciolta e si tornò a votare per volontà del capo del governo Ricasoli, che sperava di rafforzare la sua maggioranza parlamentare. Nel marzo 1867 Michele Romagnoli, battuto da Diodato Leardi, perse il seggio di Tortona, nonostante Garibaldi avesse apertamente appoggiato la sua candidatura.
Il Nostro concentrò il suo impegno nella politica locale e fece parte del consiglio provinciale per circa un ventennio. Nel 1869 Mazzini gli scrisse una lettera affettuosa che iniziava con le parole: «Fratello, mi ricordate? Io vi ricordo e malgrado la lunga interruzione delle nostre relazioni, non dubito di voi. Siete di quei che non mutano». Effettivamente, Romagnoli non cambiò mai casacca.
Anticlericale accanito, capo riconosciuto dell’opposizione a Tortona, fu direttore e proprietario del giornale “La Scrivia” sul quale condusse vivaci battaglie contro i moderati. Era esponente di primo piano della locale società operaia e per questo un documento riservato della prefettura, risalente al 1877 e comprendente l’elenco dei repubblicani più influenti, lo giudicò «capace di promuovere sommosse ed agitazioni contro il Governo». Ovviamente, Romagnoli era oggetto di vigilanza da parte della polizia.
Nel 1874 insieme col marchese Pietro Frascaroli fondò la Banca dei piccoli prestiti e cassa di risparmio delle società operaie riunite del circondario di Tortona. La cosiddetta ‘banca degli operai’ resistette una ventina d’anni e iniziò l’attività con capitale sociale di 600.000 lire diviso in trentamila azioni. Tale istituto di credito rivaleggiò, anche come centro di potere locale, con la Banca popolare, che era invece emanazione dei politici di parte moderata.
La lotta politica fu condotta da Romagnoli con coerenza e determinazione, sempre su posizioni di minoranza. Quando si spense in tarda età il 9 febbraio 1910, fu ricordato così dalla stampa di sinistra: «Il popolo lavoratore ama questi patrioti che furono sempre ribelli. Il partito socialista non dimentica che l’avv. Romagnoli, sebbene non socialista, ha sempre seguito con la massima simpatia il nostro partito e gli fu sempre prodigo di aiuti. Chi non ricorda l’avv. Romagnoli difensore nostro durante le persecuzioni crispine, per quanto a Crispi fosse legato da antica amicizia. Chi non sa del contributo finanziario che ci diede sempre spontaneamente per le nostre pubblicazioni, per la nostra propaganda, specialmente nei primordi del nostro partito, quando il professarsi socialista era sinonimo di malfattore. Mentre avrebbe potuto morire carico di onori e di denari, preferì morire povero».